Quando la sottrazione di beni aziendali perpetrato da un socio è in conflitto di interessi con la società, il reato è qualificato come appropriazione indebita (art. 646 codice penale) e non come infedeltà patrimoniale, art. 2634 codice civile.
E’ questa la sintesi della sentenza della Corte di Cassazione nr. 4244 del 01 febbraio 2012.
Il giudizio nasce dalla denuncia di un socio accomandatario che aveva sottratto parte dell’attrezzatura della società in accomandita semplice di cui era socio.
Il ricorso in cassazione è stato proposto dallo stesso socio che contesta la rubricazione del reato ascrittogli.
In sintesi, il reato di appropriazione indebita art. 646 cod. pen. si configura allorquando “Chiunque, per procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa con la reclusione fino a tre anni…”.
Mentre, il reato di infedeltà patrimoniale art. 2634 cod. civ. nasce quando “gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale, sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni.”
In prima analisi si osserva che il reato di appropriazione indebita è, dal punto di vista soggettivo, più estensivo (“chiunque”) rispetto al reato di infedeltà patrimoniale (“amministratori, direttori generali e liquidatori”).
In secondo luogo, è necessario individuare l’interesse in conflitto per ravviare l’imputazione per il secondo reato.
A parte la circostanza che alla Suprema Corte sfugge la ragione per cui il ricorrente (il socio) abbia invocato l’applicazione di una sanzione più dura (… da sei mesi fino a tre anni – art. 2634 cod. civ.) rispetto a quella imputata (… fino a tre anni – art. 646 cod. pen.), non è stato provato il conflitto di interessi con i caratteri di attualità e dell’obiettiva valutabilità tra il soggetto attivo (socio) e la società medesima.
Perciò, rigettando il ricorso, la Corte conferma il reato di appropriazione indebita al socio accomandatario.